Il Dragone si è fermato: finita l’epoca dei grandi balzi in avanti?
La Nuova Via della Seta, che ai tempi del governo giallo-verde ha congiunto Italia e Cina, è stata lastricata da una propaganda trionfalista che descriveva il XXI secolo come l’inevitabile secolo cinese, caratterizzato da una crescita illimitata del Colosso d’Oriente. Nella storia – e soprattutto nella storia economica – crescite illimitate non esistono: questa è una lezione elementare che i Marco Polo dei nostri tempi hanno volutamente trascurato.
Le dinamiche del post-Covid sembravano in apparenza confermare l’invincibilità della Repubblica Popolare: mentre le economie occidentali penavano per il virus e forse ancor più per le politiche di contenimento del virus, la Cina continuava la sua corsa. Ora però il corridore giallo è in affanno.
Un anello di nazioni per contenere la Cina
Joe Biden nel suo viaggio in Oriente ha annunciato che “per la prima volta dal 1976 la crescita degli Usa è maggiore di quella cinese”, per poi chiosare compiaciuto che “non è mai una buona idea scommettere contro gli Stati Uniti“. Biden diceva questo in un contesto significativo: la conferenza stampa a Seul insieme al presidente della Corea del Sud Yoon Suk-yeol.
Il presidente americano è andato in Asia per consolidare i legami con gli Stati marittimi dell’Estremo Oriente, al fine di evitare dopodomani una “operazione speciale” cinese nel Pacifico… Ormai da qualche anno sta prendendo forma un anello di nazioni che parte dal Giappone e dalla Corea del Sud, passa per Taiwan per giungere fino all’India: quest’ultima si riserva un atteggiamento più benevolo nei confronti della Russia, ma quando si tratta di fronteggiare la Cina è sempre più vicina ai Paesi di cultura occidentale.
Il quadro fosco dell’economia cinese
L’affermazione di Biden fa riferimento a una proiezione di Bloomberg, che per il 2022 “vede” un tasso di crescita media del 2 per cento in Cina e quasi del 3 per cento negli Stati Uniti. Fonte sospetta dal momento che la Bloomberg Tower è troppo vicina in linea d’aria con la Casa Bianca? Può darsi, però intanto un’altra tegola anche più solida della previsione sul Pil cade sulla testa di Xi ed è quella che riguarda il tasso di disoccupazione: 6,1 per cento oggi, un record storico considerando che nelle “economie popolari” il lavorare tutti, in condizioni anche rivedibili, è dogma di Stato.
Se il dato della disoccupazione si intreccia con quello dell’inflazione in aumento, con il calo delle vendite al dettaglio e soprattutto con il calo dei rendimenti delle aziende paralizzate dall’ultimo lockdown, si compone un quadro non roseo per l’aspirante prima superpotenza economica del XXI secolo. Sorge il sospetto che l’atteggiamento estremamente guardingo assunto da Pechino di fronte all’avventura militare ucraina del vicino Putin scaturisca anche dalla consapevolezza di questo momento delicato.
Solo un momento di pausa prima di riprendere la scalata al cielo del primato economico mondiale? È verosimile pensare che l’epoca dei grandi balzi in avanti dell’economia cinese sia finita. In Italia Giulio Sapelli ha in più circostanze richiamato i filo-cinesi di casa nostra troppo entusiasti alla realtà di una crescita che a un certo punto potrebbe frenare di botto, producendo scossoni nel resto del mondo. “Una sindrome cinese”, ma diversa da quella immaginata nel film catastrofista del 1979.
Il “virus” della libertà
Diventare una grande potenza industriale peraltro significa anche fare i conti con le legittime aspettative di coloro che lavorano e sudano ai piani bassi della piramide sociale. La mitica disciplina orientale – attentamente sorvegliata dalla polizia e adesso anche dalle telecamere per il riconoscimento facciale – potrebbe venir meno in nome di una più equa distribuzione dei guadagni e sicuramente è stata messa a dura prova dall’ultimo ferreo lockdown. A Shangai i cittadini sono scesi in piazza per chiedere di essere liberati da una quarantena in stile arresti domiciliari.
L’occhio del Grande Fratello cinese è abituato a osservare e a folgorare ben altre rivolte: ricordiamo quella degli studenti di Piazza Tiānānmén, inghiottiti dalla repressione mentre tutte le altre “democrazie popolari” ad ovest di Pechino si sbriciolavano. E tuttavia, a proposito di inghiottire, non esiste forse la possibilità su un milione che la Repubblica Popolare inghiottendo Hong Kong abbia anche inavvertitamente assimilato il “virus” di una occidentale percezione delle libertà e dei diritti politici?