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Ester Coen racconta Boccioni, il pittore irruento che sfidò i cubisti a colpi di luce e dinamismo

133717 638px States of Mind  The Farewells by Umberto Boccioni 1911
Della chiassosa brigata di artisti italiani a Parigi, desiderosi di sganciarsi dalla tradizione per rinnovare la cultura italiana di quel momento, Umberto Boccioni, stravagante con i suoi pantaloni dalla piega perfetta e i calzini di colori diversi, fu certamente il più vivace e irruento.Marinetti fu la sua scintilla, riuscendo ad accendere in lui quello spirito vitale che definiva la sua personalità, quel desiderio di rompere e di trovare nuovi modi per creare un linguaggio moderno, contemporaneo. Quando, nel 1912, Boccioni e i colleghi futuristi esposero alla Galleria Bernheim Jeune di Parigi, imbracciati i pennelli, si trovarono a sfidare, fino all’ultimo colpo di colore, i colleghi francesi, in primo luogo i cubisti, a casa loro. Questa sfida fu un realtà un reciproco scambio. Lo spiega bene la storica dell’arte Ester Coen, il cui contributo è uno dei preziosi interventi che arricchiscono il documentariodal titolo FORMIDABILE BOCCIONI disponibile in esclusiva su ItsART. Scritto da Eleonora Zamparutti e Piero Muscarà con la regia di Franco Rado, prodotto da ARTE.it Originals in collaborazione con ITsART e Rai Cultura, il documentario ripercorre, a 140 anni dalla nascita, la vita e le opere dell’artista inquieto, primo attore del Futurismo, che dedicò la sua carriera a inventare un nuovo linguaggio contemporaneo per esprimere la modernità in pittura e in scultura. Frame da Formidabile Boccioni | © ARTE.it“Quando i futuristi, nel febbraio del 1912, espongono alla Galleria di Bernheim Jeune - racconta Ester Coen - la loro carica violenta è fortissima, perché devono contrapporsi a un sistema dell'arte che è già ben definito, e cioè a quella pittura francese che, dall’impressionismo in poi attraverso Cézanne, era arrivata a quelle conseguenze di diversificazione pittorica. La violenza, anche fisica, con la quale i futuristi irrompono sulla scena parigina è sicuramente un modo per creare un interesse”. Che cos’è che diversifica il futurismo dal cubismo? “Certamente l'ideale futurista, e cioè il voler rappresentare l'essenza del movimento, il dinamismo, la velocità mostrata in una dimensione statica, riuscire a oltrepassare quella statica visione del dipinto”. In che modo si contrappongono i futuristi ai cubisti? “Secondo Boccioni e i futuristi la visione cubista è una visione ferma, statica, dove l'oggetto viene analizzato in tutte le sue proporzioni secondo una visione tridimensionale. L'oggetto viene frammentato e ricomposto all'interno della superficie, ma è sempre una visione legata a un oggetto fermo che appartiene a una realtà fisica. Quello che i futuristi, e in particolare Boccioni, cercano di rappresentare attraverso una luminosità diversa, attraverso quindi una frammentazione della luce e non attraverso la frammentazione volumetrica dell'oggetto, è invece questo senso di energia, questa carica dinamica, questa carica vitale che deve espandersi proprio dal soggetto e occupare tutta la realtà dell'ambiente circostante”. Umberto Boccioni, Stati d'animo: Quelli che partono, 1912. Museum of Modern Art, New YorkQuando Boccioni va a Parigi incontra Picasso (pare frequentasse il suo studio). Che idea aveva di lui? “Boccioni a Parigi incontra Picasso, ma incontra anche tutti i personaggi della scena artistica parigina. Picasso, insieme a Braque, è una figura direi quasi mitica. Insieme rappresentano quella forza iniziale di rottura di uno schema che ancora appartiene al passato. Boccioni riconosce a Picasso la volontà di rompere con il passato, riconosce la grandezza di questo artista e la grandezza della prima fase cubista alla quale Picasso e Braque sono legati”. E invece che cos’è che Boccioni rimprovera alla pittura cubista? “Il fatto di non andare oltre la realtà oggettiva del mondo reale. Boccioni accusa i cubisti di ricreare un mondo parallelo, ma che non è in realtà molto diverso da quello reale. Rimprovera di non andare oltre l’oggetto, di non creare una visione astratta della realtà. I futuristi invece insistono sull’aspetto delle linee dinamiche di forza, che distruggono la visione esteriore dell’oggetto e della figura umana. La ricerca di universalità da parte di Boccioni e dei futuristi è legata senza dubbio anche alle nuove ricerche scientifiche dell’epoca, si pensi per esempio a Bergson, alla teoria della relatività di Einstein, alla scoperta dei primi studi sull'atomo, agli studi sui raggi X”.Quindi Boccioni non butta proprio tutto della pittura cubista. Qualche elemento lo fa suo… “Apollinaire, nel primo articolo che scrive dopo l'incontro con Boccioni, racconta di avere incontrato questo artista che sta dipingendo il tema delle stazioni…Sarà la prima fase degli Stati d'animo, quella sorta di trittico che Boccioni dipinge tra il 1910 e il 1911 e del quale conosciamo due versioni, una prima direi quasi espressionista dove è la pennellata che guida il senso di direzonalità delle linee. Invece nella versione più nota, oggi al Museum of Modern Art di New York, c'è stato uno sguardo al cubismo dal quale Boccioni fa derivare alcuni elementi, ma comincia già a definire le sue idee sul futurismo. Qui si vede che, sia dal punto di vista formale che stilistico, Boccioni apprende alcuni elementi dalla pittura cubista, ma allo stesso tempo comincia già a definire in modo molto chiaro quelle che sono le sue idee sul futurismo”.Umberto Boccioni, Stati d'animo - Gli addii, 1911, Olio su tela, 71 × 96 cm | Foto: Carrà | Courtesy of Museo del Novecento, Milano Nella seconda versione di Stati d’animo Boccioni riesce invece a definire la sua idea... “La seconda versione degli Stati d’animo è quella più complessa e completa nella quale Boccioni riesce a definire la sua idea. Nel primo dipinto, che è quello legato alla partenza, vediamo linee molto confuse che vanno in tutti i sensi. Questo senso di circolarità di linee di forze raduna all'interno della stazione personaggi che si abbracciano. Al centro notiamo la locomotiva con i numeri, ci sono colori molto vivi, rossi brillantissimi, verdi, azzurri. Enfatizzano la confusione del momento in cui le persone si separano sui binari della stazione. Nel secondo dipinto, Quelli che vanno, le persone si trovano già sul treno e quindi a prevalere è questo senso legato al linearismo della prospettiva che Boccioni vuole dare, una partenza in diagonale con i volti tagliati dalla velocità del movimento del treno, e con l'azzurro a definire il senso della malinconia di questa partenza. Il terzo dipinto, Quelli che restano, raffigura le persone sul binario, ormai distaccate da chi è già andato. Le linee verticali rendono bene questa idea di chi è ancora lì sul binario. E il verde crea questo stato d’animo di abbandono”. Umberto Boccioni, Stati d'animo: Quelli che restano, 1912. Museum of Modern Art, New YorkBoccioni o Picasso ? Chi ha vinto la sfida nel Novecento? “Tutti e due, ma in maniera molto diversa e straordinaria. Se Picasso cerca di uscire dalla realtà per creare una dimensione diversa, per dare una carica oggettiva e per uno studio fenomenologico della della realtà, Boccioni, pur essendo forse più indietro dal punto di vista pittorico-stilistico, è quello che ha una maggiore carica vitale. Quella dimensione teorica che appartiene al futurismo, quella ricerca di un’estasi del moderno, come la definiscono i futuristi, forse è più moderna rispetto a quella di Picasso”.E Parigi? Era pronta ad accogliere i futuristi? “Parigi era più che pronta ad accogliere i futuristi anche se si pone in una posizione più difensiva nei loro confronti. La città brulicava di ricerche di tutti i generi intorno al cubismo. Mondrian, Diego Rivera erano tutti lì a cercare di trovare attraverso il cubismo forme nuove di espressione. I futuristi arrivano a Parigi con tutte le armi possibili per cercare di scalfire quel confine che avevano posto i cubisti e tutto l’ambiente parigino. Ed è proprio questo un motivo centrale per i futuristi per affilare le armi e accrescere la loro violenza, quell’irruenza che mettono in scena anche in Italia nei teatri, per fare presa sul pubblico”. Paris, Montmartre, Frame da Formidabile Boccioni | © ARTE.itParigi (e in qualche modo Picasso) furono quindi una scintilla nell’arte di Boccioni. Perché nel 1912 proprio dopo il viaggio a Parigi a Boccioni viene in mente di dedicarsi alla scultura? “Il manifesto della scultura futurista viene scritto di getto dopo un viaggio a Parigi. Boccioni visita numerosi studi e conosce anche tutta la scultura che viene realizzata in quegli anni, come ad esempio quella di Brancusi o dello stesso Picasso. Era quindi consapevole che le ricerche pittoriche si stavano dirigendo anche verso ricerche plastiche diverse. Questo lo stimola verso la ricerca e l'applicazione di quelle che sono le teorie della velocità, l’idea di rappresentare il dinamismo anche attraverso la scultura”. Per esempio qual è un’opera nella quale compaiono elementi che poi Boccioni trasporterà nella scultura? Materia è un dipinto che - rispetto per esempio a Rissa in galleria o Idolo moderno - ha una costruzione più volumetrica, più plastica. La figura della grande madre è chiaramente ispirata alla figura della madre di Boccioni, figura mitizzata, ideale, molto verticale. La forza che viene impressa nel dipinto è proprio nell'incrocio delle diagonali, nelle mani nodose che sprigionano forza. All'interno di questo quadro troviamo elementi che poi Boccioni trasporterà nella scultura, elementi che fanno parte di una realtà esteriore rispetto alla figura umana, come la balconata, il cavallo che corre in lontananza. Questi elementi verranno trasportati nella scultura tentando di creare un insieme plastico polimeterico che dia l’idea di una sintesi tra la figura e il suo ambiente”. Umberto Boccioni, Materia, 1912. Olio su tela, 226 x 150 cm. Collezione Gianni Mattioli, Museo del Novecento, MilanoChe fine hanno fatto le sculture di Boccioni dopo la sua morte? “È grande mistero. Ci sono in realtà varie versioni. C’è chi afferma che dopo la mostra del 1916 organizzata da Marinetti a Palazzo Cova queste sculture siano state lasciate in un deposito e che quindi siano andate distrutte per le intemperie. C’è invece chi dice che queste sculture siano state affidate allo scultore Pietro da Verona il quale, in un atto di furore, probabilmente quasi a voler nullificare l'opera di Boccioni, le avrebbe distrutte. Marco Bisi - il nipote che era stato adottato dalla sorella di Boccioni - avrebbe recuperato una delle sculture, Bottiglia nello spazio”. Perchè a suo avviso Boccioni è più famoso come scultore che come pittore sebbene le sue sculture siano andate distrutte? Forme uniche della continuità nello spazio è una scultura che propone una dimensione diversa rispetto alla scultura tradizionale. Mentre gli artisti cubisti cercano di ricreare quella particolarità dell'assemblaggio della scultura e della pittura cubista, Boccioni ricerca quell'attenzione dinamica delle masse attraverso l'impulso dinamico. Cerca di sciogliersi dalla dimensione fisica, ma, allo stesso tempo, cerca un aggancio con la realtà esteriore. E questa è una novità straordinaria sia dal punto di vista stilistico che estetico”. Cosa rimane oggi di Boccioni? “Rimane la sua straordinaria vitalità, l'idea di una costruzione architettonica delle masse che ritroviamo per esempio anche nell'architettura contemporanea, basti pensare a Frank Gehry, l'idea di andare oltre la realtà fisica. C’è questo sondare lo spazio, quello sfondare la realtà della tela che ritroviamo nell'opera di Fontana. C'è la dimensione di un aleatorietà della pittura che ritroviamo nelle ricerche degli artisti contemporanei come Olafur Eliasson. Quello lasciato da Boccioni è un segno straordinario, di una ricerca che va al di là dei fenomeni fisici della realtà pur partendo da quegli elementi”. Leggi anche:• In viaggio con Boccioni, I capolavori da ammirare nel mondo• La Collezione Mattioli al Museo del Novecento: il racconto dei protagonisti• Le opere di Boccioni da vedere in Italia

L’arte e i tormenti di Munch in un docufilm

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In una notte d’inverno, davanti al focolare, una giovane donna legge ai bambini una fiaba norvegese. Siamo nella casa di Edvard Munch ad Åsgårdstrand, immersi nel Grande Nord, dove i venti sussurrano, gli orsi trasportano le ragazze sulla schiena, i troll sfoderano malvagi incantesimi. Eppure, quella che vede protagonista Edvard Munch è una favola priva di lieto fine, che si conclude con la morte di sua madre e della sorella Sophie, con la devastante depressione del padre, eventi che segneranno per sempre la vicenda umana e artistica del pennello de L’Urlo. Il docufilm Munch. Amori, fantasmi e donne vampiro, prodotto da 3D Produzioni e Nexo Digital, diretto da Michele Mally che firma la sceneggiatura con Arianna Marelli, al cinema il 7, 8 e 9 novembre, ci invita in sala per guardare con nuovi occhi l’uomo dal fascino profondo e misterioso, precursore e maestro per tutti coloro che vennero dopo di lui. Oltre a gettare nuova luce su Munch, il nuovo docufilm de La Grande Arte al Cinema, distribuito con i media partner Radio Capital, Sky Arte, MYmovies.it e in collaborazione con Abbonamento Musei, è anche un viaggio attraverso la Norvegia di Munch. Un invito rivolto agli spettatori a ricercare le radici e l’identità di un artista universale, a interrogarsi sull’idea di tempo, tema principale e ricorrente nel suo multiforme lavoro. Munch. Amori fanstasmi e donne vampiro - Edvard Munch, Ceneri, Munch, OsloCome racconta la sua biografa, Sue Prideaux, Munch visse ottant’anni travagliati, tra alcolismo, problemi psichiatrici, isolamento. Ma la lettura psicoanalitica della sua opera non basta. Storici dell’arte come Jon-Ove Steihaug, direttore del Dipartimento Mostre e Collezione del Museo MUNCH di Oslo, Giulia Bartrum, per decenni curatrice del British Museum, e Frode Sandvik, curatore del Kode di Bergen, passano in rassegna i temi e le ossessioni presenti nella sua opera, oltre alle abilità artistiche. Le tecniche sperimentali che l'artista ha scelto di adottare nei suoi lavori rendono le sue opere, come spiega la restauratrice Linn Solheim, estremamente fragili, dense di quella ricerca sull’animo umano e del tentativo di tradurre le emozioni su tela o carta.Munch. Amori fantasmi e donne vampiro, Ingrid Bols Il docufilm non trascura l’esperienza, cruciale, della bohème fin de siècle. Come spiega il direttore del Museo MUNCH, Stein Olav Henrichsen, “gli artisti sono sempre in opposizione al proprio tempo, anche se - guardando indietro - li consideriamo rappresentativi di un particolare periodo della storia”. E Munch in opposizione con il suo tempo c’è stato, vivendo da bohémien prima a Kristiania - dove rideva dei morti viventi borghesi insieme allo scrittore anarchico Hans Jæger, al pittore Christian Krohg e alle donne dallo spirito libero che incarnavano una figura femminile indipendente nella società - e in seguito a Berlino, dove si innamora di Dagny Juel, frequentando satanisti e dottori che sperimentano l’uso della cocaina.Il grande schermo analizza anche il complesso rapporto di Munch con le donne, che non si esaurisce solo con le vicende biografiche, come la burrascosa relazione con Tulla Larsen, una delle “Donne Vampiro” che Munch incontrò durante la sua vita e che sparò al pittore durante una lite. Per l’artista trauma e arte, tormento e desiderio si intrecciano e si fondono in maniera incessante in un’intensa riflessione sulla donna: una “sirena” ed enigmatica “sfinge” che, come ha sottolineato anche la scrittrice Gunnhild Øyehaug, attrae e atterrisce l’uomo.Munch. Amori fantasmi e donne vampiro - Edvard Munch, Vampiro, Munch, Oslo I legami più intimi con i paesaggi del Nord e i suoi colori vividi si fanno musica nelle composizioni di Edvard Grieg, che trascorreva le sue estati nella natura della collina di Troldhaugen a Bergen. Il compositore norvegese ha saputo ricreare quella stessa sensazione del “trovarsi a casa”, come anche il pianista Leif Ove Andsnes. In questa continua ripetizione, così come negli esperimenti visivi attraverso il cinema e la fotografia, possiamo trovare - come suggeriscono gli storici dell’arte Elio Grazioli e Øivind Lorentz Storm Bjerke - la chiave per entrare nel tempo di Munch. Un tempo variabile che si dilata verso l’eternoe insieme fissa attimi che diventano successivamente ossessioni.E noi, in qualche modo suoi eredi, accogliamo la sua richiesta di salvezza, una sorta di apertura agli spiriti, ai fantasmi che ci aleggiano intorno. A tessere la storia di Munch sono, nel docufilm, anche gli interventi di Erik Höök, direttore dello Strindbergsmuseet di Stoccolma, della soprano e imprenditrice Siri Kval Ødegård, di Carl-Johan Olsson, curatore Pittura del XIX secolo al Nationalmuseum di Stoccolma, e la colonna sonora del film, che include brani di repertorio, come quelli del compositore e organista norvegese Iver Kleive. A firmare le musiche originali del film - che saranno contenute sull’album Munch. Love, ghosts and lady vampires – Music insipired from the film, in uscita a novembre su etichetta Nexo Digital e distribuzione Believe Digital - è invece il musicista e compositore Maximilien Zaganelli.Munch. Amori fantasmi e donne vampiro. Edvard Munch, Autoritratto, Munch, Oslo

Cento capolavori per una grande storia: i 25 anni della Fondation Beyeler

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Entrano nel vivo le celebrazioni per i 25 anni della Fondation Beyeler. Dopo due importanti mostre dedicate alla pittrice americana Georgia O’Keeffe e al maestro dell’astratto Piet Mondrian, il museo svizzero punta i riflettori sulla propria collezione permanente in un allestimento senza precedenti.  Fino all’8 gennaio, nell’elegante edificio progettato da Renzo Piano e Peter Zumthor, potremo ammirare in un solo colpo un’impressionante selezione di capolavori, per un totale di 100 pezzi e oltre 30 artisti in mostra.Fondation Beyeler, Jubilaeums Ausstellung. Photo Mark Niedermann I Courtesy Fondation Beyeler Opere di Vincent Van Gogh, Claude Monet, Paul Cézanne, Henri Rousseau introducono i gioielli modernisti di Henri Matisse, Pablo Picasso, Alberto Giacometti, in un viaggio attraverso il meglio dell’arte del Novecento che includerà Mark Rothko, Andy Warhol, Francis Bacon, Louise Bourgeois, fino a icone del contemporaneo come Marlene Dumas, Anselm Kiefer, Roni Horn, Felix Gonzalez-Torres, Tacita Dean, Rachel Whiteread, Wolfgang Tillmans. Lungo tutto il percorso della mostra, le sculture iperrealistiche dell’artista statunitense Diane Hanson sorprenderanno i visitatori da posizioni impreviste, instaurando dialoghi inattesi con i tesori e gli spazi della Fondation Beyeler.Fondation Beyeler, Jubilaeums Ausstellung. Photo Mark Niedermann I Courtesy Fondation Beyeler Il risultato è un’esplorazione a tutto tondo di una delle più prestigiose raccolte europee di arte moderna e contemporanea, messa insieme in 50 anni da una coppia di collezionisti che a questo progetto ha dedicato la vita. Circa 400 pezzi compongono oggi la collezione di Ernst e Hildy Beyeler, che nel 1997 hanno deciso di renderla accessibile a tutti con un’idea molto chiara: creare un museo aperto e vivace che potesse trasmettere la passione per l’arte al pubblico più vasto possibile. Tra alberi secolari e stagni di ninfee, il gioiello architettonico creato da Renzo Piano ai piedi della Foresta Nera coniuga natura e cultura in un mondo di luce e di bellezza. Il successo non si è fatto attendere: oggi la Fondation Beyeler è il museo d’arte più visitato in Svizzera ed è considerato uno dei più belli al mondo.Fondation Beyeler, Jubilaeums Ausstellung. Photo Mark Niedermann I Courtesy Fondation Beyeler

L’Ombra di Caravaggio – La nostra recensione

134029 Riccardo Scamarcio L Ombra di Caravaggio DSC5211 credits Luisa Carcavale 01
Un uomo tormentato, sovversivo nell’aspetto, pronto a sfoderare la spada dal fianco per scatenare la rissa, la barba, i velluti un po’ consunti, i capelli scarmigliati dal taglio un po’ anarchico, cerca e ritrova nel proprio volto lo sguardo di Golia. Di mestiere fa il pittore, i pantaloni aderenti come un paio di jeans, le scarpe sporche di fango, una camicia cosparsa di ogni vernice, spesso di sangue, colore incrostato sulle mani, sotto le unghie. E lui stesso, Caravaggio lo “scornacchiato”, assomiglia a una tela, come i personaggi che il suo sguardo rapisce dalla Suburra romana - e dalla Chiesa di Santa Maria in Vallicella, dove Filippo Neri toglie la fame ai tanti derelitti - per trasferire nei quadri quella realtà putrida fatta di ladri e prostitute pronti a prestare i loro volti alle madonne e ai santi più celebri della storia dell’arte. Rissoso frequentatore di taverne e donne di strada, il Caravaggio di Michele Placido è l’espressione più autentica di quel “vero” che da sempre ossessiona l’artista che depone sulla tela i tanti cristi in croce trovando nella realtà quei Vangeli che conosce a memoria e alla cui lettura si commuove. Dal 3 novembre L’Ombra di Caravaggio, una co-produzione italo-francese siglata da Goldenart Production con Rai Cinema e per la Francia Charlot, Le Pacte e Mact Production porta al cinema la complessa esistenza di Michelangelo Merisi (interpretato da Riccardo Scamarcio) con Michele Placido a firmare il suo quattordicesimo film da regista, Sandro Petraglia, Fidel Signorile e lo stesso Placido alla sceneggiatura, e un cast di grandi nomi. Riccardo Scamarcio (Caravaggio) e Isabelle Huppert (Costanza Colonna) nel film L'Ombra di Caravaggio | Foto: © Luisa CarcavaleRibelle e inquieto, devoto e scandaloso, indipendente e trasgressivo, il Caravaggio 2.0 che Placido porta al cinema è un artista pop venuto a Roma, a quell’epoca centro del mondo, per attingere da quell’universo di immigrati, preti, prostitute, pellegrini, cardinali, principi e malviventi, e che oggi vivrebbe la sua vorticosa esistenza in uno studio qualunque di Londra o New York. A fronte di una chiesa controriformista che chiede statue, cupole e dipinti per celebrare la propria opulenza in un gigantesco cantiere delle meraviglie, Caravaggio, al pari di un regista neorealista ante litteram, vicino all’ala pauperista della chiesa, cerca invece un ritorno ai valori evangelici. Lo trova in Filippo Neri e nelle donne della sua vita, nella marchesa Costanza Colonna (Isabelle Huppert), molto più di un’amica, che lo protegge fin dall’infanzia, in Lena (Micaela Ramazzotti), una delle prostitute più famose di Roma, rappresentata spesso come Maria, la madre di Gesù, e poi in Annina, il volto di uno dei suoi più grandi capolavori, La morte della Vergine, oggi al Museo del Louvre di Parigi, “la morte più viva che sia mai stata dipinta”.Micaela Ramazzotti (Lena), L'Ombra di Caravaggio | Foto: © Luisa CarcavaleColpisce l’intensità con la quale il regista allestisce la scena della Morte della Vergine, e non solo, con una teatralità che commuove. Una teatralità alla quale il Placido “parolaio” e uomo di teatro non poteva rinunciare. Piacciono questi echi di teatro che affiorano dall’allestimento della spettacolare festa del Cardinal Dal Monte allestita a Villa Aldobrandini, nell’apparecchiamento della Conversione di San Paolo e della Crocifissione di San Pietro, nel dialogo potentissimo con Giordano Bruno. Nel sublime confronto tra Caravaggio e il frate domenicano (Gianfranco Gallo), girato nei sotterranei di Napoli a rappresentare le prigioni nella Roma del tempo, c’è tutta la ricerca della verità agognata da due uomini. Come il filosofo degli infiniti mondi anche Caravaggio gioca a dadi con la morte da quando pesa su di lui la terribile condanna. Michelangelo Merisi da Caravaggio, Crocifissione di San Pietro, Cappella Cerasi, Santa Maria del Popolo, RomaNel film i protagonisti diventano opere d’arte viventi. Se per Caravaggio la realtà viene prima di ogni cosa, anche il regista fa sì che la pelle, i piedi, le pulsioni, i vizi, il sangue, gli sguardi dei suoi soggetti scompiglino le corde dello spettatore prima di depositarsi sulla tela. Lo studio dove il pittore realizza i suoi capolavori, ambientato nel film a Cinecittà, è un via vai di bottegai, prostitute, nobili e prelati grandi collezionisti d’arte come il Cardinale Francesco Del Monte. Così Placido, ed è questo uno dei punti di forza del film, snocciola una serie di personaggi, solitamente poco considerati, ma contemporanei di Caravaggio, emblematici per annusare il contesto storico del pittore e forse un po’ anche la sua arte, oltre che i fermenti di un’epoca, il Seicento, dove a Roma la Vallicella diventa la variegata fucina della sua verità. La Roma di Caravaggio è anche la Roma di Orazio e Artemisia Gentileschi e ancora di Filippo Neri, di Scipione Borghese e del Cavalier d’Arpino. Michele Placido, Riccardo Scamarcio (Caravaggio) e Louis Garrel (l'Ombra) ne L'Ombra di Caravaggio | Foto: © Luisa CarcavaleLungi dall’essere protagonista di una scena laccata, scolasticamente delineata da una sfilza di opere corredate da didascalia, il Caravaggio di Michele Placido vive alimentandosi dalla realtà, dalla veracità degli accenti romaneschi che esplodono dalla bocca di Ranuccio (Brenno Placido) e di suo fratello (Michelangelo Placido). La sfida che consisteva nella ricerca dell’aderenza storica e in una ricostruzione d’epoca che non mirasse alla spettacolarizzazione retorica ma piuttosto alla sostanza materica degli ambienti risulta vinta. Come probabilmente anche la trovata dell’Ombra (Louis Garrel) un agente segreto del Vaticano, a tratti nel film un po’ troppo statico, al quale Papa Paolo V decide di commissionare una vera e propria indagine che mette sul banco degli imputati Caravaggio e la sua arte. Sarà lei a decidere se concedere o meno la grazia che il pittore chiedeva dopo la sentenza di condanna a morte per aver ucciso in duello un suo rivale. E sarà l’Ombra, l’unico personaggio di fantasia del film, ad avviare le sue attività di spionaggio sul pittore che, con la sua vita e con la sua arte, affascina, sconvolge, sovverte. Al termine del film sarà questo stesso personaggio di fantasia a decretare un finale che potrebbe apparire antistorico. Ma la licenza d’autore può anche concedersi di giocare con il mistero fittissimo che si cela intorno alla fine di Caravaggio.Riccardo Scamarcio nel film L'ombra di Caravaggio I Courtesy 01 DistributionMolto attento risulta nel film il lavoro sugli arredi e gli oggetti di scena, dai libri ai quadri di Caravaggio, che rispecchia la volontà di superare una rappresentazione iconografia già vista. Le opere sono state preparate su tela con basi materiche che al momento della stampa sono state patinate proprio per rendere le texture dei quadri molto più veritiere rispetto alle semplici riproduzioni fotografiche. Seguendo l’incessante peregrinare di Caravaggio da un posto all’altro lo spettatore incontra diverse location che frantumano gli stereotipi dei luoghi del maestro, in un’ambientazione sporca, decisamente lontana dalla tentazione di una rappresentazione iconografica o patinata. La presenza dei luoghi nel film si fa potente e trascina dagli sfarzosi palazzi pontifici e nobiliari come Villa Chigi, dove è stata ambientata parte della dimora dei Colonna, alle osterie popolari, tra le chiese e le fortezze, lungo i sotterranei di Caracalla trasformati in strade cittadine piene di sporcizia, brulicanti di cloache e mendicanti. Ritroviamo Napoli con le sue chiese del Rinascimento e inizio Barocco napoletano, dove sono state ricostruite la Cappella Contarelli e la Cappella Cerasi, ma anche Sant’Agostino (la Curia di Roma non ha permesso che le riprese venissero effettuate all’interno delle chiese romane). A Castel Dell’Ovo prendono invece vita i sotterranei di Malta con la Decollazione di San Giovanni, una delle ultime opere di Caravaggio prima del ritorno a Napoli. Michelangelo Merisi Da Caravaggio, Decollazione di San Giovanni Battista, 1608, Olio su tela, 361x320 cm, Concattedrale di San Giovanni, La Valletta, MaltaIn questa sfida priva di patinature retoriche, finalizzata a restituire tutta la dimensione terrena, umana, dolorosa e carnale del pittore e del suo tempo, convincono i costumi per i quali Carlo Poggioli si è ispirato agli abiti che Caravaggio amava indossare, sottolineando talvolta il legame tra l’abbigliamento e i cambiamenti nell’esistenza del pittore che, dagli abiti molto semplici e poveri nella prima fase della sua vita, passa a un guardaroba un po’ più vario e colorato quando la sua fama comincia ad affermarsi. Al netto di salti temporali un po' troppo altalenanti che riflettono l’incessante peregrinare del maestro, ma che in alcuni momenti fanno un po’ smarrire lo spettatore rallentando un po’ il focus sul protagonista, la fotografia di Michele D’Attanasio convince, il finale sorprende. E se davvero l’amore è sinonimo di verità - un po' come l'universo di Giordano Bruno realizzato da un Dio altrettanto infinito, da amare infinitamente - il messaggio finale consegnato da Placido attraverso la frase di Virgilio, ripresa da Caravaggio, Omnia vincit amor, è davvero l'epilogo perfetto di quella ricerca del vero che Caravaggio ha difeso con convinzione fino alla fine dei suoi giorni.Michelangelo Merisi da Caravaggio, Amor vincit Omnia, Gemäldegalerie, Staatliche Museum, Berlino Leggi anche:• Michele Placido racconta il suo Caravaggio, il "regista" solitario che cercava la verità nella pittura• Nove splendidi dipinti da riconoscere nel film L'Ombra di Caravaggio• L'Ombra di Caravaggio, dal 3 novembre solo al cinema• Riccardo Scamarcio è Caravaggio nel nuovo film di Michele Placido